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Risorse umane e disumane parole

Scegliere con cura le parole da non dire al lavoro. L'abbiamo chiesto allo Psicologo del lavoro, e l'esperto di Risorse umane.Viviamo in un mondo...
Ram Consulting Benevento
Che parole usi con i tuoi collaboratori, con i tuoi soci e con i tuoi clienti?

Scegliere con cura le parole da non dire al lavoro. L’abbiamo chiesto a Marco Vitiello,Psicologo del lavoro, e Marco Mauri, esperto di Risorse umane. 

Viviamo in un mondo fatto di parole: scritte, pronunciate, gridate o sussurrate. Ognuna ha un peso, soprattutto quando si parla di lavoro, luogo in cui trascorriamo la maggior parte della nostra giornata e dove spesso viene sottovalutata l’importanza dei termini utilizzati.

Ma ce ne sono alcune che sarebbe meglio non usare? Lo abbiamo chiesto a Marco Vitiello, psicologo del lavoro impegnato da vent’anni nella consulenza a imprese e lavoratori sugli aspetti relativi a comportamento umano e dinamiche relazionali, oggi coordinatore di un gruppo di lavoro che fa capo all’Ordine degli Psicologi del Lazio, e a Marco Mauri, HR Corporate Director di Stevanato Group, azienda specializzata nella produzione di contenitori in vetro e dispositivi di somministrazione del farmaco in plastica, con sede in provincia di Padova e oltre 3.800 dipendenti a livello globale.

Un Paese che impara la negatività e vive di parole da non dire

Esordisce Vitiello: “Generalizzando e semplificando un po’, perché poi ogni azienda è un mondo a sé, possiamo dire che ci sono da un lato le parole ‘killer’ verso i capi e dall’altro le parole ‘killer’ verso gli altri in generale: colleghi, business partner e clienti. Nel primo caso, resiste nel tempo uno stereotipo per cui al capo non si può dire no, quindi in generale le parole condannate sono quelle avversative, problematiche: ad esempio non abbiamo le persone a sufficienza, non c’è budget, non ci è mai capitato prima, non è colpa nostra. Nel secondo caso entriamo più nella sfera motivazionale – per cui aggiungerei anche i collaboratori tra i riceventi –, dove parole/frasi come ‘sì ma’, ‘non si può fare’, ‘forse non hai capito’ e simili, ricalcando il solito stile avversativo, possono generare nel tempo un clima organizzativo ‘difensivo’ che non alimenta fiducia e collaborazione.”

“Come detto, stiamo generalizzando, ma possiamo trovare un tratto comune in questi due spaccati comunicativi: abbiamo un’innata, anzi meglio dire appresa, tendenza al negativo, all’avversativo. Questo perché il modello pedagogico che ci ha caratterizzati per tanto tempo, e che ancora oggi resiste, era basato sulla negazione, ovvero ‘non si può fare’; ancora oggi su 20 affermazioni di genitori verso i figli in generale circa 18 sono negative. La globalizzazione ha un po’ spostato l’asse, le multinazionali hanno portano nuovi modelli, ma c’è sempre il rischio che si passi da una standardizzazione a un’altra e che le frasi “positive” diventino solo etichette forbite del solito modo, o di un nuovo modo, per delegittimare o raggirare gli altri e rimanere su diktat che arrivano dall’altro. Basti pensare al venditore che pur di raggiungere gli obiettivi imposti dall’azienda è disposto a mettere in scena qualsiasi copione.”

Le parole da non dire sul lavoro

Mauri affronta il tema dal punto di vista opposto: “Più che delle parole da non dire preferisco parlare delle parole che è consigliato utilizzare, ovvero in linea generale tutte quelle che portano con loro una valorizzazione del ruolo in azienda della persona, che permettano di farla sentire parte importante e integrante di una squadra. In generale infatti, è sempre meglio evitare parole che possano esprimere un senso di negatività e utilizzare quelle che diano un’idea di propositività e ottimismo; ad esempio meglio parlare di ‘tema’ e non di ‘problema’, meglio parlare di ‘occasione di miglioramento’ e non di ‘sconfitta’. Se il tema della scelta delle parole è in generale molto delicato, all’interno del mondo HR questo diventa ancora più vero: le parole rivelano molto rispetto alla persona che sceglie di utilizzarle. Sono infatti importanti nel dare un’immagine completa della persona, raccontando almeno in parte, il suo stile, le credenze, la forma mentis, il modo di essere e di rapportarsi con gli altri, la sua apertura e potenzialmente anche parte della sua storia”.

Un altro punto di attenzione è il cambiamento che ha subìto il mondo del lavoro soprattutto con l’uso delle nuove tecnologie, che ha delle ricadute anche sul linguaggio: “Sicuramente il mondo del lavoro ha vissuto negli ultimi tempi cambiamenti molto significativi, in gran parte dovuti al sempre maggiore utilizzo e influenza delle nuove tecnologie e agli strumenti utilizzati. Penso in particolare alla comunicazione virtuale, alle e-mail, che hanno portato a un drastico cambiamento dello stile comunicativo, con un forte sbilanciamento verso la comunicazione rapida e scritta, quindi spesso spersonalizzata o comunque depurata di tutto il non verbale. La parola assume quindi un peso ancora maggiore, in quanto viene presa per il suo significato, frutto di interpretazione da parte di chi la riceve. Un altro esempio può poi essere quello legato alla dimensione social e alla sua capacità di amplificare, sottolineare e fungere da cassa di risonanza del pensiero: una parola giusta o sbagliata in un determinato contesto può quindi avere un impatto molto forte in termini di reputazione, sia a livello individuale che di azienda”, continua Mauri.

Disinnescare il linguaggio negativo sul posto di lavoro

Che cosa si fa allora quando si individuano situazioni in cui prevale un tipo di approccio al linguaggio che potremmo definire “negativo”? Vitiello prova a definire una direzione: “Noi psicologi cerchiamo di orientare le organizzazioni a un’analisi e consapevolezza dello strumento comunicativo, che se usato sapientemente, ma soprattutto in una logica di benessere organizzativo, può portare i gruppi e le squadre aziendali al successo. Una comunicazione assertiva, che mette i no al momento giusto – non per partito preso – e che analizza le possibilità quando le interlocuzioni esplorano nuovi scenari è sicuramente quella che caldeggiamo rispetto alle altre modalità comunicative tipiche dell’interazione umana, caratterizzate da aggressività e remissività”.

Approccio che deriva anche dagli studi sul linguaggio nel mondo del lavoro portati avanti nel corso degli anni: “Grazie a questi studi abbiamo capito che le parole sono etichette neutre e che il senso che gli si dà dipende dal contesto in cui vengono utilizzate, un contesto che è anche sociale e che si caratterizza in ciascuna diversa organizzazione. Sono stati fatti diversi studi sulla comunicazione nei luoghi di lavoro: in generale, anche quando ci sono le tecnologie di mezzo, i nostri studi avvalorano la necessità umana di trovare continuamente le ‘intese’ necessarie nella interlocuzione, e quando una tecnologia viene calata dall’alto rischia di essere rigettata dalla popolazione, come ad esempio avviene per l’introduzione dei software gestionali in azienda, mentre i social, non a caso, impazzano. Altri studi, cosiddetti conversazionali, confermano che l’essere umano cambia continuamente il suo schieramento interlocutorio, per cui in un discorso la parola ‘noi’ comprende l’interlocutore e in un altro lo esclude, ad esempio noi rispetto a voi. Le analisi sull’uso dei pronomi dimostrano che la comunicazione definisce anche le appartenenze nei gruppi di lavoro. Sicuramente non saremo mai noi psicologi a suggerire se è meglio usare un noi o un voi, ma possiamo aiutare le persone a capire quando è meglio usare l’uno rispetto all’altro, in un’ottica di raggiungimento degli obiettivi comuni”, spiega Vitiello.

“Le ricerche su questo fronte sono molteplici e si stanno ampliando e approfondendo sempre di più. A oggi uno dei filoni più interessanti a mio parere riguarda il sempre più diffuso utilizzo degli inglesismi. Altri ambiti sono quelli legati alla leadership, dove si parla della differenza tra i concetti di manager e di leader, e quello relativo allo stile comunicativo all’interno delle aziende, come nel caso delle differenze tra contesti più formali e informali e l’adattamento dei relativi stili comunicativi”, conclude Mauri.

Si riuscirà a correggere il tiro, dando al linguaggio in ufficio l’importanza che merita? Iniziare intanto a evitare le parole “ostili” potrebbe essere un buon punto di partenza.

Fonte: informazionesenzafiltro > https://bit.ly/2OKCOGt